Abbiamo imparato a conoscere la sua passione e il suo straripante entusiasmo per il caffè. In un articolo Fabrizio Rinaldi, tostatore Romano, ci aveva parlato di come pensava di comporre le sue miscele. Ma creare è sperimentare, gli esperimenti di Fabrizio vanno avanti, e in questo post ce li racconta…
Vorrei essere una specie di Zio Paperone e nuotare ogni mattina dentro una vasca piena di caffè crudo, in modo da trovare l’energia giusta per affrontare la giornata e riempirmi di quell’odore, floreale e fresco, che caratterizza i chicchi verdi di buona qualità. Se questo per molti può sembrare solo un sogno, un folle sogno, io ci provo per davvero, durante le fasi di tostatura, a sprofondare dentro i sacchi di juta e mi sfiora un brivido quando annuso, scavo, ascolto e guardo dentro il mio caffè.
Altro che dollari, o acqua termale … sarebbe questo il bagno perfetto ! Ma adesso torniamo a galla e concentriamoci sulla realtà.
E’ importante, per ogni bravo torrefattore, studiare con attenzione l’intera varietà del suo caffè e tenerla sotto controllo, in un ambiente fresco e asciutto, lontana dalla luce del sole, con i sacchi di juta posti sopra un piano d’appoggio, realizzato magari con delle tavole di legno, in modo che non siano a contatto con il pavimento. Un bravo torrefattore dovrebbe, inoltre, sapere l’esatta provenienza della merce che acquista e conoscere il territorio in cui viene prodotta, spiegando, ad esempio, che usa un’ottima qualità di Arabica nella sua miscela, magari un Yrgacheffe proveniente dalla regione di Sidamo, in Etiopia, coltivato in una piantagione che si trova a circa 1800 metri s.l.m.
E sarebbe molto professionale, per lui, aggiungere quanta percentuale di questo caffè sia necessaria per raggiungere un determinato risultato in tazzina. Perché un bravo torrefattore, e adesso basta, non lo ripeto più, o rischio di sembrare un dottorino puntiglioso, dovrebbe avere una visione talmente chiara dei suoi prodotti, da saperli giostrare con maestria, a seconda della fetta di mercato cui sono destinati. Quindi, sapere le caratteristiche di ogni caffè monorigine che acquista ed utilizzarlo nel migliore modo possibile, valorizzando i pregi di ciascuno di esso.
Io, nel mio piccolo, non mi stanco mai di studiare il caffè che viene coltivato nel mondo e soprattutto di mettere in pratica le mie modeste conoscenze. Di recente, per darvi un’idea, sentivo l’esigenza di creare una nuova miscela, con una marcata percentuale d’Arabica, sul settanta per cento circa, che non rinunciasse tuttavia ad un risultato denso e corposo in tazzina. Insomma qualcosa di originale, da aggiungere alla Miscela Classica, il cavallo di battaglia della mia torrefazione, e alla Miscela 100% Arabica, a basso contenuto di caffeina, delicata e aromatica.
Ci voleva, per questa nuova miscela, una dose di ottima Robusta, un Kappy Royal indiano, magari, una base di Santos Cerrado Santa Clara, un po’ di Centro America, immancabile, e per concludere un trenta per cento di Arabica africana, proveniente dall’Etiopia e dalla Tanzania. In particolare, quest’ultima, Il Tanzania Arabica Top Quality AA, un naturale proveniente da una regione a sud del Kilimangiaro, aveva il merito di rendere unica la mia miscela, in quanto sprigionava un profumo dolce e floreale, con sentori di spezie e pepe nero, ma con una bassa acidità, caratteristica inconsueta per un’Arabica. Nacque così la Miscela Prestige, dolce e intensa, con un notevole aroma, dal sapore delicato e molto equilibrato che si presentava in tazzina, sulla superficie, con un’emulsione compatta. Fu un successo. Ed una grande soddisfazione per me. In fondo era la prima miscela che riuscivo a creare completamente da solo, sfruttando le mie competenze sul caffè crudo.
In quel periodo, bramoso di scoprire ogni sfumatura del mio caffè, decisi di andare a fondo anche sul decaffeinato. Sapevo, ovviamente, che il processo di eliminazione della caffeina viene svolto prima della tostatura, in quanto i chicchi crudi mi arrivano già miscelati e di colore scuro, causato dal lavaggio con i solventi. Chiesi informazioni al mio fornitore, sempre puntuale nel rispondere alle mie richieste. Riuscii così a comprendere che i sacchi da trenta chili di decaffeinato che io acquistavo erano composti da una miscela molto semplice : cinquanta per cento di Santos Cerrado Santa Clara, dal Brasile, e cinquanta per cento Cherry AAA, dall’India. Un’azienda di Milano si occupava poi della miscela e del processo di decaffeinizzazione. A me toccava, infine, l’onere della tostatura.
Ma il gusto di sperimentare non era certo finito e il merito di questa continua ricerca va anche ad un libro, acquistato anni fa, che considero la mia bibbia personale :“ L’aroma del mondo “ di Elisabetta Illy. Un tomo illustrato che esplora il caffè dalle sue origini fino alla diffusione in ogni angolo del pianeta, soffermandosi in particolare sulle zone di produzione del caffè e sui metodi di tostatura e di estrazione della bevanda. Mi avvicinai così al concetto di tostatura chiara e tostatura scura. Scoprii che i pregi e i difetti di un caffè crudo potevano essere accentuati, in modo positivo o negativo, a seconda del livello di cottura a cui venivano sottoposti. Io che per mia indole non amavo il gusto amaro, scartai subito la seconda ipotesi. E provai a tostare la mia miscela ad un temperatura di circa otto, dieci gradi inferiore alla media. Fu un risultato sorprendente. I chicchi avevano un colore molto chiaro, lontano dalla tonalità detta tonaca di frate che li contraddistingue.
E dopo averli tenuti a riposo per alcuni giorni, non avevano sprigionato gli oli aromatici, dovuti alla fuoriuscita dell’anidride carbonica presente all’interno del chicco. L’odore quindi era meno intenso, mentre in tazzina lasciava un gusto dolce, con una spiccata acidità. Noi italiani non siamo abituati a questo tipo di caffè, più adatto alla cultura del Nord Europa, tuttavia è stata un’esperienza molto interessante che mi ha permesso, tra l’alto, di assecondare le esigenze di alcuni clienti, nel mio locale, che cercano un caffè leggero e al tempo stesso amabile, dove l’amaro scompaia quasi del tutto.
Durante questa epopea di studi ed esperimenti sul caffè, mi era venuta all’improvviso voglia di strafare, ovvero raggiungere l’impossibile, il Kopi Luwak, quindi, il caffè più costoso al mondo. E non mi bastava assaggiarlo, lo cercavo crudo, per essere poi libero di tostarlo e analizzarlo a mio piacimento.
Ma questa in fondo è un’altra storia e ho deciso la racconterò nel mio prossimo articolo.
Nel frattempo invito tutti voi a provare sempre esperienze nuove, non accontentarsi mai, e di cercare sempre il bello, nella vita, e anche in una tazza di caffè.
Contattare Fabrizio? Qui: [email protected]
Bravo,continua cosi! Sono curioso di assaggiare il tuo decaffeinato. Giovedi sarò a Ciampino.. ciao