Ieri, le anteprime dell’intervista ad Andrej Godina che andranno in onda nella prossima puntata di Report, pubblicate da alcuni giornali (soprattutto napoletani) hanno creato polemica e dibattito (anzi, condanna). Come si può dire che il caffè napoletano, l’espresso per eccellenza, è di basso livello?
Ma in questa querelle, chi ha ragione, Godina o il mondo del caffè Napoletano?
Se il concetto di caffè buono corrisponde alla tazzurella forte, amara e supercremosa hanno ragione le torrefazioni napoletane (torrefazioni, abbiamo detto, non baristi o clienti).
Se invece andiamo a vedere il caffè come prodotto agricolo, di cui vengono selezionate le migliori (e peggiori) qualità, qualità che, come nel caso del vino, si pagano, si vede allora bene come i caffè napoletani siano preparati con chicchi di seconda scelta, molto lontani dal famoso “100 % arabica” della pubblicità e poveri nel profilo aromatico, capaci però, se ben bruciati (non tostati) in fase di tostatura, di rendere una tazza cremosa, corposa, amara e (guarda caso) molto economica. Allora, allora, ha ragione Andrej Godina.
Potremmo dire che tutto dipende dai gusti allora, ma dove nasce un gusto? Sappiamo bene che il gusto è cultura; è evidente che i piatti agrodolci che gli italiani trovavano straordinari ai tempi dei Medici sarebbero orribili adesso; ancora, i vini del contadino o le grappe-benzina degli anni 50 sarebbero imbevibili al giorno d’oggi.
La percezione del caffè napoletano come buonissimo quindi è nata ad un certo momento, e questo momento può essere collocato intorno agli anni ’50, con le prime macchine da espresso capaci di fare “la cremina” fu forse in quel momento che i brillanti e furbi torrefattori napoletani si accorsero che usando miscele di caffè robusta sovratostate e economiche gli veniva un caffè cremoso e amaro, tanto amaro e cremoso da poter essere venduto come il migliore.
Il resto c’è lo mise la magia di Napoli e degli straordinari baristi napoletani, capaci con le loro tazze caldissime, le cremine con lo zucchero e le loro macchine a leva, di arricchire il rito, la liturgia del caffè napoletano, di straordinarietà
Questo non toglie però che i chicchi venduti dalle torrefazioni siano di cattiva qualità, e che qualsiasi barista o cliente, se messo in condizione di comparare miscele buone con miscele da basso prezzo, li distingue. (quanto costa la miscela Kimbo venduta ad Autogrill?)
Non credo che la intervista di Godina vada vista come un attacco alla città di Napoli, credo semmai che possa essere uno spunto per i bravissimi baristi napoletani, capaci di magia, ad invitarli a chiedere ai loro torrefattori cosa mettono dentro le loro (guarda caso) segrete miscele, a capirne il loro reali valori nei listini del caffè crudo, e cominciassero a pretendere che ad una grande magia, quella del caffè napoletano, corrispondesse, finalmente, una grande qualità della materia prima.
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Mi trovo perfettamente d’accordo, occupandomi tra le altre cose di cucina medievale (interessante soprattutto perché cucina e modo di vivere vanno di pari passo, con piatti diversi a seconda della classe sociale), è vero che oggi non sarebbe per i nostri stomaci. Lo stesso si può dire per il caffè e altri cibi. Mi sembra che anziché continuare a migliorare si adagiano sugli allori e le miscele sono ottime a prescindere. Mah…