Da cosa nasce questa “nuova specie” e quali sono le soluzioni per la incompatibilità ambientale della produzione di caffè.
L’area geografica che presenta le caratteristiche idonee alla crescita e sviluppo della pianta del caffè è la cosiddetta ‘coffee belt’, ovvero la fascia intertropicale che attraversa l’intero globo da est a ovest.
È in questa cintura geografica che, infatti, la pianta del caffè trova le condizioni ottimali per crescere, condizioni che sono leggermente diverse a seconda che si parli di Coffea Arabica o Canephora.
È importante che le temperature si attestino tra i 18 e i 25 gradi Celsius per la specie Arabica, 22 – 28 C° per la Robusta, e l’escursione termica non superi i 19 C° nel primo caso o i 14 C° nel secondo.
Per le sue caratteristiche il clima tropicale è ottimo per il caffè, pianta che necessità di
- Climi caldi e piovosi
- Il terreno nel quale nasce e cresce deve essere costantemente umido, ma non troppo bagnato (per evitare il formarsi di muffe), ricco di sostanze nutritive e con un PH leggermente acido
- Non deve essere eccessivamente esposta al sole (per evitare che le foglie si brucino), per questo viene coltivata in associazione a piante da frutto o da legna dal fusto più alto, in modo da garantirle ombra e riparo.
Da quanto detto possiamo facilmente percepire che esiste un equilibrio delicato che permette la crescita e proliferazione di questa pianta. Condizioni che ad oggi sono messe seriamente in discussione dai cambiamenti climatici che si stanno verificando a livello globale.
I cambiamenti che per questo aspetto più ci preoccupano sono:
- Aumento delle temperature che si traduce nella contrazione della produzione, in grani di qualità più scadente e di conseguenza nella necessità di spostare la coltivazione ad altitudini più elevate.
- Alterazione dell’equilibrio delle precipitazioni con conseguenti periodi di siccità più prolungati e fenomeni temporaleschi più intensi che minano l’assetto e l’alternanza umidità/siccità di cui ha bisogno la pianta del caffè per fiorire, nutrirsi e riprodursi; nonché causa del forte rischio di erosione e depauperamento del substrato nutritivo del terreno.
- Sempre maggior frequenza nel verificarsi di eventi meteorologici estremi che possono apportare gravissimi danni, irreparabili, alle coltivazioni (vedi, ad esempio, ‘il grande gelo’ che ha afflitto il Brasile e le sue coltivazioni negli ultimi anni).
- Il moltiplicarsi di parassiti e malattie della pianta, fenomeno reso possibile appunto dal clima, che sta diventando sempre più favorevole alla loro proliferazione, minacciando in modo importante la resa e la qualità della pianta.
Ma accanto alle problematiche di tipo ambientale ad osteggiare la tranquillità del nostro rito quotidiano sono anche le questioni economiche e geopolitiche.
In particolare mi riferisco al tasso di scambio sfavorevole fra euro e dollaro e i problemi di sicurezza nell’area mediorientale, in particolare gli scontri per il controllo del Canale di Suez, che hanno portato molti trasportatori ad evitare il passaggio per il Mar Rosso, passaggio che riduceva enormemente tempi e costi dell’importazione.
Dobbiamo considerare un altro aspetto: probabilmente le difficoltà geologiche e climatiche che sta affrontando la coltivazione della pianta del caffè (e non solo ovviamente), renderà insostenibile il ritmo di consumo che abbiamo attualmente di questa bevanda, ma il circolo è vizioso, perché è proprio il successo e diffusione della sua richiesta che ha portato al peggioramento delle condizioni climatiche globali di cui solo ho accennato in precedenza.
Pensate: una singola pianta di arabica produce tra i 450 e i 900 gr di caffè all’anno. Il che si traduce pressappoco così: 2 tazze al giorno per un anno pro capite corrispondono all’intera produzione annua di 20 piante di Arabica. Qui sta il circolo vizioso. L’aumento della richiesta di caffè a livello globale comporta l’adozione di modelli di agricoltura estensiva che inevitabilmente porta a deforestazione ed impoverimento del substrato nutritivo del suolo. Non è finita qui. La quantità di CO2 che viene emessa durante la filiera produttiva gioca un ruolo fondamentale sulla crisi del cambiamento climatico.
Sulla rivista Geographic and Environment [‘Life cycle assessment synthesis of the carbon footprint of Arabica coffee: Case study of Brazil and Vietnam conventional and sustainable coffee production and export to the United Kingdom’, C. Nab, M. Maslin, 30 Dec. 2020] si riporta che per produrre 1 kg di caffè si immettono nell’atmosfera circa 16 kg di CO2.
È per tutta questa serie di motivi che si stanno cercando delle alternative al caffè come lo conosciamo.
Si è cosi arrivati ad una duplice tipologia di risultati:
- Sostituire il caffè come lo conosciamo con qualcosa di già esistente in natura, come ceci o rifiuti agricoli upcycled, ovvero rifiuti reimpiegati per il miglioramento di materiali, compresi gli alimenti stessi, piuttosto che essere destinati a filiere a minor valore aggiunto
- Usando cellule coltivate in laboratorio da piante di caffè naturali reali
Nel primo caso una delle possibilità sarebbe sostituire il caffè ‘tradizionale’ con un caffè solubile composto da una serie di ingredienti fermentati e tostati tra cui i semi di Ramon (per chi non sapesse cosa sono consiglio di leggere l’articolo dedicato nella sezione Ark of taste della Fondazione Slow Food), addizionato di aromi comunemente riconducibili al caffè come lo conosciamo oggi, ad es. il cioccolato.
Altre possibilità che si stanno sperimentando sono per esempio quelle studiate dalla ATOMO Beanless Coffee [si può consultare a riguardo l’intervista al COO di ATOMO Beanless Coffee Ed Hoehn, sulla rivista Musings], che utilizza superfood e ingredienti upcycled come semi di girasole, datteri, guada e altri e addiziona la caffeina estraendola dalle foglie di te verde.
Nel secondo caso, come si sta già facendo per altre specie alimentari, si riproducono sinteticamente in laboratorio nuove molecole da particelle di caffè già esistenti.
È quello che stanno sperimentando in dei laboratori in Finlandia dove, da alcune cellule di foglie della Coffea, in particolare della Coffea Arabica, messe in coltura ad una data temperatura e lavorate con dei bioreattori, ricavano una biomassa che poi dovrà essere filtrata e sciacquata con dell’acqua sterilizzata. Le cellule, a questo punto, vengono liofilizzate e congelate fino al momento della tostatura.
Sono state fatte diverse prove di tostatura, in particolare tre, per tre diversi gradi di colore.
Le variabili che sono state analizzate, tutte comprensibilmente molto difficili da interpretare da un non-esperto in biochimica, portano ad alcune conclusioni, tra le quali:
- Il caffè risultante dalla sintesi delle cellule provenienti dalle foglie della pianta stessa ha un contenuto di caffeina sensibilmente inferiore rispetto a quello dei grani naturali.
- Dal punto di vista sensoriale, il ‘caffè sintetico’ (lo chiameremo cosi per semplicità di linguaggio) quando ancora ‘verde’, manca delle caratteristiche aromatiche, una volta estratto ovviamente, che presentano invece i chicchi verdi naturali; ma le cose cambiano quando estraiamo il ‘caffè sintetico’ e quello naturale partendo da materiale tostato. Il caffè sintetico tostato è molto simile in amarezze e acidità a quello naturale tostato.
Questo è possibile anche perchè, come certa letteratura sottolinea, la maggior parte dell’amarezza viene apportata in tazza dai processi di degradazione che avvengono durante la tostatura, piuttosto che dalla concentrazione di caffeina
- Per quanto riguarda i componenti aromatici volatili, invece, che si sviluppano durante tutto il processo di estrazione, si è confermata la presenza di una critica diversità tra caffè naturale e sintetico, distanza che si accorcia, sulla base delle evidenze risultanti dalle prove di laboratorio, quanto più si tosta il nuovo tipo di caffè ‘beanless’ [vedi ‘Proof of Concept for Cell Culture-Based Coffee,H. Aisala, E. Kärkkäinen, I. Jokinen, T. Seppänen-Laakso, and H. Rischer, Journal of Agricultural and Food Chemistry]
Per concludere non si può non sottolineare che il caffè creato in laboratorio, pur essendo solo l’ennesimo alimento che percorre questo tipo di sentiero, come altri prima di lui (basti pensare al fenomeno adesso molto dibattuto della carne sintetica), presenta problematiche di carattere etico, morale, ma anche ‘meramente’ economiche e normative relative alla sua produzione e commercializzazione.
Gli studi futuri, infatti, dovranno appuntarsi su aspetti tecnici quali la definizione di procedure per la lavorazione di questo nuovo ‘tipo’ di caffè e su aspetti tossicologici e analitici.
E voi, cosa ne pensate?
Autore: Vanessa Ferrini