Renato Collodoro è uno scrittore, che come piano d’appoggio per lavorare, anziché una comoda scrivania, sceglie spesso di stare in mezzo ai fornelli, o addirittura sul bancone di lavoro di un bar, in mezzo ai cappuccini.
Di un suo piacevolissimo libro “Il Sogno di Aprire un Ristorante…e di non chiuderlo prima di svegliarsi” avevamo già scritto sul nostro blog gemello aprireunbar.com in questo post; oggi scegliamo il nostro Coffeeblog per pubblicare questo piacevolissimo racconto di un espresso, ma visto da un nuovo punto di vista, quello della nostra fedele macchina da caffè, ma non quella da casa, con le fredde capsule di plastica, quella vera!
Un amore di caffè
Sono la macchina del caffè espresso. Aspetta, non quella stilosa, alla moda, reclamizzata dal piacione americano ex fidanzato di una nostra connazionale gnocca, che si regala a Natale o per altre occasioni speciali. Io sono quella cicciona con i braccini corti – e non perché genovese – che sta posata pesantemente sul retro del banco-bar. Faccio un lavoro faticoso, mai meno di dodici ore al giorno. Mi caricano di acqua, pure fredda, che mi tocca riscaldare consumando tantissima energia. Poi, quando arrivo alla temperatura giusta, già alle prime ore del mattino, mi staccano i braccini e li sbattono violentemente sulla barra di un cassetto dove scaricano il caffè che ho già spremuto. Ma non basta un colpo, a volte li sbattono anche due, tre, quattro volte. Non viene in mente a nessuno che mi possono rovinare e anche farmi incazzare?
L’altra cosa che mi dà fastidio, è quel fighetto del macinino che se ne sta seduto di fianco a me, senza fare il minimo sforzo, mentre io sono continuamente sotto pressione. Mi guarda anche con superiorità, sto’ damerino da quattro soldi. Il suo corpo, piccolo e tozzo, che sembra seduto anche se in realtà è in piedi; il collo lungo, da aristocratico, a cui gli manca solo il farfallino per farlo atteggiare ancora di più; e poi il berretto, ma di fogge diverse, che gli viene sollevato per riempire di chicchi di caffè quella zucca vuota che si ritrova. Il signorino non deve fare altro che masticarli molto finemente, finchè il mio barista non mi stacca il braccino e glielo posa davanti dandogli una pacca sulle spalle: è il segnale che deve tirare giù la mercanzia.
A questo punto, il barista, sperando che non abbia passato la notte a cazzeggiare da un bar altro, cerca di riattaccarmi il braccino in un colpo solo, sennò comincia a sfruculiarmi finchè non trova l’incastro giusto.
Solo ora può tirare giù la leva. E’ arrivato il mio momento, dopo tanta fatica non riconosciuta e qualche umiliazione, finalmente esce il caffè: quel filo cremoso, che prigionando tutto il suo aroma riempie la tazzina, che fino a quel momento stava a scaldarsi sulla mia pancia. Viene così appoggiata su un piattino, fornita di cucchiaino e poi presentata sul piano del bancone, dove una mano ansiosa aspetta di versarvi lo zucchero che si appoggia sulla crema prima di andare a fondo. La stessa mano, che prende il cucchiaino, lo immerge, rimesta, lo toglie e lo appoggia sul piattino, mentre indice e pollice pinzano il manico per elevarla e portarla alle labbra di colui che, sorseggiando, mi guarda ammirato. Sì, proprio me! Che sono un po’corpulenta e modesta – non come quella sfacciata che va direttamente nelle case -, ma fedele e passionale, oltre che laboriosa. Chi mi vuole mi cerca, sa dove trovarmi!
Dal libro “Il Buon Mangiare” di Renato Collodoro…
libro sul caffè
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